Una finestra sempre chiusa, il vicino che non dorme per l’abbaiare ripetuto e un odore che entra appena si apre la porta: è questo il quadro che arriva dalle liti condominiali più frequenti. Il tema è semplice sulla carta ma complesso nella pratica: la legge oggi vieta ai regolamenti di condominio di impedire la detenzione di animali domestici, ma quel diritto incontra i limiti della convivenza. Proprietà e libertà dell’animale si scontrano con il diritto al riposo e al decoro degli altri abitanti. Un dettaglio che molti sottovalutano è che non sempre la parola “animale” risolve la disputa: conta il comportamento concreto dell’animale e le modalità di custodia.
Norme e interpretazioni
La riforma del condominio ha introdotto il comma 5 dell’art. 1138 c.c., con il quale si stabilisce che il regolamento non può vietare di possedere o detenere animali domestici. Questa disposizione ha aperto un dibattito tra giuristi: una lettura tradizionale sostiene che il divieto nei regolamenti approvati a maggioranza è sempre stato inadmissibile perché intacca il diritto di proprietà sulla singola unità immobiliare; l’altra sostiene che il comma vada interpretato alla luce delle norme sulla tutela degli animali, nazionali e internazionali. Sulla seconda linea pesano strumenti come la Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia e le leggi italiane che riconoscono agli animali la qualifica di esseri senzienti, in particolare la legge che ha aggiornato le tutele penali contro i maltrattamenti. Per questo motivo alcuni ritengono che anche i regolamenti stipulati contrattualmente al momento dell’acquisto non possano imporre divieti assoluti. Un fenomeno che in molti notano solo d’inverno è l’aumento delle liti dovute alla maggiore permanenza in casa, che mette in luce conflitti mai emersi prima. In pratica la norma tutela il possesso dell’animale, ma non esclude che la sua presenza sia regolata nei limiti imposti dalla convivenza civile e dalle esigenze degli altri condomini.

Quando il rumore diventa illecito
La distinzione pratica si misura con la disciplina delle immissioni prevista dall’art. 844 c.c.: le immissioni provenienti da proprietà vicine sono legittime se non sono intollerabili, tenendo conto della natura del luogo e delle necessità della vita quotidiana. Applicato al caso dei cani, questo principio impone una valutazione della tollerabilità: il cane ha il diritto di esprimersi, ma non può trasformarsi in una fonte di disturbo continuo e reiterato. Il rumore diventa giuridicamente rilevante quando è persistente, si verifica in orari destinati al riposo e supera il normale margine di tolleranza. In tali casi può configurarsi il reato previsto dall’art. 659 c.p. (disturbo della quiete pubblica) se il comportamento del proprietario non viene corretto nonostante le contestazioni. È però necessario che il disturbo sia potenzialmente idoneo a raggiungere un numero indeterminato di persone: non basta il solo fastidio di un vicino particolarmente sensibile. Un aspetto che sfugge a chi vive in città è che la prova dello stato di disturbo può essere raccolta anche con certificazioni mediche e registrazioni dell’andamento dell’abbaiare, elementi che spesso fanno pendere la bilancia nelle decisioni giudiziarie.
Il caso giudiziario e le possibili conseguenze
La giurisprudenza ha iniziato a tradurre questi principi in provvedimenti concreti. In un’ordinanza del Tribunale di Bologna, il giudice ha accolto una richiesta cautelare e ordinato la rimozione immediata dei cani dall’abitazione di un condomino, ritenendo provate immissioni olfattive e acustiche costanti e lesive della salute del vicino. Il ricorrente aveva documentato l’abbaiare notturno, gli odori dovuti alla mancata pulizia degli spazi e l’impatto sulla salute con certificati medici: elementi che, messi assieme, hanno reso fondato il pericolo per la tutela della salute e della tranquillità. Il giudice ha adottato il provvedimento ex art. 700 c.p.c., prevedendo anche la possibilità di sanzioni giornaliere per ritardata esecuzione. Questo esempio mostra che il proprietario rischia non solo contestazioni amministrative o condominiali, ma ordini di allontanamento e misure coercitive. Un dettaglio che molti sottovalutano è che l’esperienza processuale premia la documentazione: registrazioni, esposti multipli, testimonianze e certificati clinici incrementano le probabilità di un provvedimento urgente. Al termine della vicenda rimane una realtà concreta: la tutela dell’animale convive con limiti precisi, e la convivenza condominiale continua a essere il terreno su cui si misura la responsabilità del proprietario.
